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10/27/2002


L’assassinio della politica
di Barbara Spinelli


VLADIMIR Putin non poteva far altro che quello che ha fatto, di fronte alla violenza di un terrorismo ceceno che aveva preso in ostaggio ottocento inermi cittadini radunati in un teatro moscovita, il 23 ottobre, e che per tre giorni aveva sparso la paura nella capitale e in tutta la Russia.

Di fronte al crimine, lo Stato non può che preservare se stesso, inflessibilmente. Deve poter riconquistare il monopolio della violenza, deve poter colpire i criminali, se vuol salvare non solo gli innocenti che il terrorismo usa come scudi ma la propria stessa vocazione a proteggere l’incolumità della popolazione e la sopravvivenza del contratto sociale tra governanti e governati.

L’assalto al teatro di via Melnikova è la conseguenza logica di tutto ciò, e l’operazione sarebbe un successo sicuro se non fosse per il gas nervino: qualora, come sembra, esso fosse stato usato, saremmo di fronte alla gravissima rottura di un tabù, perchè quest’arma infame non era mai stata maneggiata da un governo che ha il rispetto del mondo.

I sequestratori sono stati in gran parte uccisi, a cominciare dalle donne con cinture di esplosivo e chador che avevano annunciato alle televisioni arabe di voler morire a Mosca per la Cecenia e la loro fede.

I civili hanno pagato un prezzo alto, ma centinaia di essi sono scampati allo scontro seguito all’assalto delle unità speciali impiegate nell’alba di ieri.

Ma la pagina che è stata scritta in queste ore a Mosca è al tempo stesso assai buia, e di pessimo augurio. Come pagina della nostra storia, è improbabile che serva a correggere le azioni delle classi politiche e di quelle governative, in Russia come in Occidente.

Serve a unificare il fronte della guerra mondiale contro il terrorismo, e a rinsaldare la determinazione poliziesca dei governi minacciati. Serve a creare l’immagine dominante che caratterizza questo inizio del secolo, dopo la fine delle ideologie novecentesche: l’immagine di un terrorismo globale, che usa la fede musulmana come arma offensiva e come sfida, che proclama la guerra agli infedeli d’Occidente come d’Oriente.

E che conduce la sua offensiva di fronte alle telecamere, nelle ore di maggiore ascolto, per meglio piegare le menti di chi osserva - fino a ieri ignaro di quel che accade, tramutato improvvisamente in spettatore impotente d’un regolamento dei conti indecifrabile, ultraterreno - la meticolosa messa in scena dell’orrore.

Ma serve anche a obnubilare la realtà, a militarizzare definitivamente l’arte della politica, a far apparire quest’ultima completamente superflua, completamente inane, priva di qualsiasi autonomia, incapace di dar leggi a se stessa che non siano quelle della giungla e della punizione violenta, più o meno preventiva.

Il nuovo ordine mondiale rischia di essere questo: alla pace e alla politica incaricata di edificare le regole della convivenza civile, si sostituisce una militarizzazione delle menti che tende a uniformarle tutte sotto un unico emblema cui viene dato il nome di terza guerra mondiale contro il terrore islamico.

Alle regole si sostituisce una sregolatezza mentale che solo le armi possono curare. Integralismo religioso e militarizzazione della politica stipulano fra di loro un diabolico patto - il patto della guerra fra le culture - e la parola che unifica i contraenti è quella pronunciata nei giorni scorsi dalla donna kamikaze con chador: «Sono pronta a morire qui a Mosca per i ceceni e contro gli infedeli».

L’avversario dell’indipendentista ceceno non è Putin lo stratega, il politico. È Putin l’esponente della fede cristiana contro cui l’Islam in quanto tale è chiamato ad arruolarsi: una via d’uscita più onorevole non c’era, per il Presidente russo impelagato in una orribile guerra coloniale.

Le peculiarità locali e nazionali si sperdono, nella caligine mediatica di simile globalizzazione santificata del crimine. Gli obiettivi legittimi delle guerre di indipendenza e di emancipazione nazionale vengono frantumati, dalla macchina omologatrice di questo Moloch che tutto divora e tutto trasforma: il Moloch di un terrore che sotterraneamente si allea con i capi delle mobilitazioni antiterroriste e che coscientemente viene chiamato alle armi per cancellare ogni ragionevole distinzione fra guerre lecite e illecite, tra frustrazioni reali e immaginarie dei popoli, tra sofferenze razionali e irrazionali.

L’azione terroristica contro i civili moscoviti non porta alla ribalta le guerre dimenticate, come hanno preteso i sequestratori fanatizzati dalla depravazione del jihad islamico. Forse essi vogliono portare i conflitti nel cuore del paese aggressore, ma di fatto ottengono l’esatto contrario. Trasformano guerre giuste in guerre criminose, pervertono la loro natura come le loro finalità, tolgono ogni speranza a chi in buona fede combatteva contro le atrocità di un’oppressione, una colonizzazione.

Non solo: di fatto deresponsabilizzano i colpevoli stessi di queste oppressioni e colonizzazioni - il governo russo, nel caso della presa di ostaggi al teatro di via Melnikova - che attraverso il terrore dovevano esser spinti a prender coscienza dei propri errori e a correggerli.

Il terrore contro i civili e la guerra dell’Islam kamikaze hanno deresponsabilizzato Sharon in Israele, permettendogli di ignorare le domande non illecite che vengono dal popolo palestinese nei territori occupati. Ma ancor peggio in Russia, nella guerra caucasica che Putin ha ricominciato all’inizio della sua carriera di Presidente, nell’autunno del 1999: una sordida guerra di sterminio, ben più feroce di quella condotta dagli israeliani in Cisgiordania e Gaza contro un terrorismo antico, è stata definitivamente deformata e banalizzata dall’azione criminosa di pochi combattenti islamizzati, consentendo a Putin di allontanare da sé ogni personale responsabilità, ogni consapevolezza di carattere politico.

A partire da oggi, il terribile conflitto ceceno smette di avere i caratteri che aveva: da guerra di indipendenza diviene semplice tassello della globale guerra contro Al Qaeda, escrescenza di un unico male che non necessita rimedi locali e prese di coscienze nazionali ma che richiede un’unica, indistinta, militarizzata risposta mondiale.

È il motivo per cui osservatori obiettivi e attenti come l’esperto militare Pavel Felgenhauer a Mosca, o l’ex consigliere per la sicurezza Zbigniew Brzezinski in America, denunciano l’alleanza obiettiva fra terrorismo e vertici russi.

E si chiedono come sia stato possibile che un manipolo di cinquanta kamikaze vestiti con regolare uniforme, carichi di esplosivi e imbarcati in camion militari, abbia potuto traversare la Russia, entrare indisturbato a Mosca, irrompere nella sala del teatro (intervista di Maurizio Molinari a Brzezinski, La Stampa, 26 ottobre) In ogni caso gli eventi moscoviti sono la cosa peggiore che potesse accadere al popolo ceceno e ai suoi combattenti per l’indipendenza: l’irruzione dei terroristi nel teatro pieno di cittadini mette sullo stesso piano l’11 settembre americano e il 23 ottobre moscovita, e così facendo mescola quello che non andrebbe mescolato, confonde quello che andrebbe separato.

Fino a ieri il conflitto condotto nel Caucaso dalla forze russe era una guerra nascosta: tenuta lontana dalle telecamere, dai giornali, dall’attenzione della stessa nazione russa.

Avveniva in una sorta di camera chiusa a chiave e separata dal resto della nazione, e in questo era ben diversa dalla guerra condotta dagli israeliani nei territori occupati. Delle azioni militari di Sharon nel campo profughi di Jenin abbiamo saputo tutto, grazie alla libera stampa israeliana e alle organizzazioni umanitarie.

Abbiamo saputo, in particolare, che il massacro di cui era stato faziosamente accusato non aveva avuto luogo. La Cecenia è invece un campo dalle centinaia di Jenin: tutte vere, ma tutte occultate. Questo è cambiato, negli ultimi tre giorni. Da guerra nascosta e dimenticata, la guerra cecena è diventata guerra sequestrata.

Guerra d’indipendenza che solo qualche eccentrico si proverà ancora a difendere, in nome dei diritti dell’uomo e contro la minaccia di un genocidio. La stessa parola genocidio scomparirà dal nostro linguaggio. La adopera ancora Brzezinski, o la vedova di Sacharov Elena Bonner, o il partito radicale italiano. La adopera lo stesso Museo dell’Olocausto in America, che ha iscritto la Cecenia, assieme al Sudan, nella lista dei paesi dove un genocidio sta compiendosi.

Ma Putin esce dalla prova con uno strano successo. Di questo genocidio, non è più lui il primo responsabile. Chi conosce la guerra cecena si meraviglia che il sequestro terrorista non sia avvenuto prima. Perché a forza di nascondere le guerre e di tenerle chiuse in separate stanze dell’orrore, i perseguitati ricorrono a soluzioni estreme pur di farsi sentire. Perché è stata la straordinaria ferocia e corruzione dell’offensiva russa a creare infine il terrorismo, e non il contrario.

Di per sé la Cecenia non è una nazione dedita all’estremismo islamico. Il suo presidente legittimamente eletto, Aslan Maskhadov, ha sempre cercato di tenere a distanza i radicalismi arabi che volevano impossessarsi della guerriglia, con molta più chiarezza di Arafat.

La popolazione è tradizionalmente attratta da un Islam mistico, estraneo al massimalismo. È l’atrocità della guerra che ha indebolito il gruppo dirigente, in particolare da quando Putin ha avuto piena libertà d’azione dopo l’11 settembre. Che ha permesso l’infiltrazione dell’Islam legato agli arabi di Al Qaeda.

Al Qaeda è divenuto il nome di tutti i mali su questa terra: una sorta di Moloch appunto, che raduna su di sé tutte le colpe, e che dà licenza ai governi minacciati di avere un unico nemico esterno, ben individuabile come bersaglio. Ma il male sarà difficile vincerlo, se gli si attribuisce tutta questa sterminata onnipotenza.

Se sistematicamente viene trasformato in forza che ci è esterna, oltre che estranea. Se la politica non riconquista quegli spazi che ha lasciato marcire nel corso di decenni, rinviando le soluzioni moderate dei conflitti e consegnandoli infine ai demoni, come più volte è già accaduto nel Novecento.

In Palestina c’è un terrorismo kamikaze che si macchia di ingiustificati crimini contro l’umanità, ma c’è anche una situazione che solo Israele può riparare, decolonizzando i territori occupati. E così in Russia: il disastro del teatro moscovita è colpa del terrorismo, in primo luogo.

Ma è anche colpa di un governo che rifiuta ogni soluzione politica del conflitto e che non esita a programmare il genocidio di un popolo. Ed è colpa di tutti noi, che davanti a questo genocidio non sappiamo schierare null’altro che la nostra complice indifferenza.

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